Il ruolo del pensiero positivo nella psicoterapia individuale
A cura della psicologa e psicoterapeuta Dott.ssa Francesca Cervati
Il periodo delle festività natalizie per la maggior parte delle persone è fonte di gioia, riposo, incontro di amici e famigliari, per altri si rivela invece un periodo molto duro, fatto di isolamento e solitudine, resa ancor più forte dalla visione di tanta allegria (per le strade o attraverso i media).
È stata riscontrata, a tal proposito, una vera e propria “sindrome del Natale” (Christmas Blues), che associa malinconia, ansia e tristezza al periodo delle feste; a questo, si aggiunge chi non ama per nulla le festività, i caroselli e i festoni per strada, chi è contro per ragioni sociali, religiose o politiche, o ancora, chi disprezza il consumismo sfrenato che accompagna solitamente il Natale.
Il mio ruolo in questo caso, come psicoterapeuta cognitivo comportamentale, non è certo quello di giudicare chi porta una visione diversa dalla mia: per alcuni si tratta di un atteggiamento dettato dalla propria indole, per altri è l’adattamento di un comportamento a situazioni vissute in precedenza, che li porta a una chiusura rispetto al periodo festivo.
Il pensiero positivo
Quello che normalmente suggerisco durante il mio lavoro di psicoterapia individuale, non solo in questo specifico periodo ma in generale, è di allenarsi al pensiero positivo e funzionale rispetto a sé stessi: non significa affatto pensare “andrà tutto bene”, è un esercizio molto più sottile ed efficace, anche se certamente più complicato.
In questo periodo, per esempio, potete provare a dire a voi stessi: “anche se non mi piace tutto il consumismo che il Natale porta, apprezzo il fatto che renda le persone molto più propense all’accoglienza e alla condivisione”.
Oppure, si può anche ragionare in questo modo: “non apprezzo il periodo delle festività, ma adoro praticare sport invernali; per cui, posso approfittare dei giorni di vacanza per andare a sciare, da solo o con i miei amici” (questo dipende sempre da cosa vi rende più felici).
Uno dei fondamenti della psicoterapia individuale di indirizzo cognitivo comportamentale, ma che ritroviamo anche all’interno della psicologia positiva, è proprio la concezione della persona come organismo attivo in grado di agire sulla propria felicità, in maniera biologica (in senso evoluzionistico), individuale (come realizzazione di se stessi) e sociale (come integrazione e partecipazione).
La psicologia positiva
Perché un atteggiamento positivo ci stupisce? Siamo così abituati, in quest’epoca individualista, a interagire con il prossimo solamente per lamentarci del cibo (con un cuoco o un cameriere), per un ritardo (con l’autista del bus), per un errore commesso da un collega, che abbiamo dimenticato quanto un atteggiamento positivo porti benefici non solo a chi ci sta di fronte, ma anche a noi stessi.
Oltretutto, non è mai troppo saggio indisporre chi tratta con il cibo che mangeremo o guida un mezzo sul quale siamo seduti…
Un semplice sorriso, un grazie, oppure un’offerta di aiuto o ascolto, lasciano spesso stupite le persone più stupite di una risposta piccata o un atteggiamento aggressivo.
Quando l’atteggiamento diventa teoria?
Quando si parla di psicologia positiva, si fa riferimento allo “studio di ciò che funziona al meglio nella mente di una persona, delle facoltà mentali ed emotive che permettono di vivere al meglio delle nostre possibilità, di superare o accettare le avversità” (C. André, 2014).
Lo scopo è quello di aiutare una persona a comprendere quale sia la sua idea di benessere, in quali condizioni si attivino le sue migliori capacità e che cosa è necessario fare perché i pensieri funzionali si mantengano in modo duraturo nella mente.
Il ruolo di uno psicologo, in questo caso, è insegnare esercizi pratici e suggerire conoscenze teoriche (solitamente, consigliando dei libri specifici) durante le sedute di psicoterapia individuale, in modo da “educare al pensiero positivo e funzionale” i pazienti.
Psicoterapia individuale ed educazione alla felicità
Già i filosofi greci avevano compreso quanto la felicità fosse un obiettivo importante e legittimo, ma che presupponeva un lavoro su se stessi: “se si identificasse solamente con i piaceri del corpo, diremmo felici i buoi quando trovano cicerchie da mangiare”.
Lo psicologo Martin E. P. Seligman suggeriva nel suo lavoro del 2003, come la felicità fosse il risultato dell’interazione di tre componenti, che la psicologia positiva aveva il compito di promuovere:
- Le emozioni positive (per esempio gratitudine, fiducia, ottimismo);
- L’impegno che si applica per modificare i propri pensieri disfunzionali;
- Il significato (e il valore) che si dà alle cose.
Se un tempo le persone che intraprendevano un percorso di psicoterapia individuale venivano considerati come malati da curare, oggi si è compreso che vanno invece “educate alla felicità”, che non può essere quella che ci suggeriscono film e serie tv, a un pensiero più positivo e funzionale per noi stessi, perché tutti dovremmo imparare a svolgere al meglio il nostro “mestiere di essere umani”.